IO ALLA FINE NON SO COSA SIA UNA BELLA FOTO.SO SOLO CHE VEDO COSE E LE DEVO FERMARE.E CHE A VOLTE HO QUALCOSA DA DIRE.ALTRE VOLTE, NO.


28.2.12

Le mie pillole della felicità. Le prendo tutte le sere. O quasi.

A volte la felicità è fatta di attimi.
Uno sguardo che dura giusto un secondo di troppo.
Il tocco di una mano sul tuo braccio mentre ridi.
Un raggio di sole che si insinua fra i vestiti.
Il profumo del mare appena scendi dalla macchina dopo aver guidato per chilometri solo per vederlo.
Il tocco della sabbia calda tra le dita dei piedi.
Un serbatoio pieno di benzina e una strada da percorrere.
Aprire la casella delle email e trovarci la sua.
Il primo morso in un pezzo di pane croccante quando hai fame.
Succhiare un cubetto di cioccolato.
Il primo sorso di birra dalla bottiglia.
Camminare anca contro anca.
L’aria fredda sulle guance d’inverno.
Stare seduta davanti al fuoco e vedere e sentire la luce calda attraverso le palpebre chiuse.
Il profumo di brioche la domenica mattina al bar.
Quella canzone che sembra sia stata scritta solo per te.
Gli occhi chiusi e quel reef nella pancia.
L’azzurro abbagliante di un cielo mattutino in Sardegna.
Le stelle nella notte di San Lorenzo.
Il calore di un locale pieno di gente che balla.
Un libro nuovo con la spina ancora liscia.
La prima pagina di un quaderno bianco.
La lama tagliente del peso specifico della parola giusta al momento giusto.
Trattenere il respiro e premere il pulsante della macchina fotografica.
Aprire gli occhi e vedere te.
Ridere insieme. Osare fidarsi.
Accennare un’idea e scoprire che la persona davanti a te sa esattamente di cosa stai parlando.
Abbracciare tua figlia quando piange.
Averla sentita muoversi nella tua pancia.
Sentirla ridere di pancia. Sentire te ridere.
Sentirti e basta.

Eppoi, a volte, quando tutto questo o non c’è, o non si ricorda, o sono promesse per un futuro prossimo, e la testa fa fatica a ricordare, ad aspettare, a sperare, c’è la felicità in pillole. "My chemical romance". Due pillole. Tutte le sere.
E la felicità è tutta tua Serena.

27.2.12

Mi leggo per ricordarmi chi sono.
Mi leggo e mi perdo volentieri tra tutte quelle rotondità delle vocali, le abbraccio, ci scivolo sopra come sulla ringhiera da piccola, oppure ci passo attraverso come si faceva con quelle pesanti tende di velluto rosso che si dovevano aprire per entrare al cinema. Ne sento la morbidezza, attutiscono la rabbia, il senso d’impotenza, la delusione. Colmano il vuoto che ho in mezzo alla pancia. Le abbraccio e mi scaldo. Mi avvolgono come un abbraccio dopo un’attesa troppo lunga, o mi stringono troppo come la tela di un ragno avvinghiata intorno alla sua preda.
Sto bene attenta a evitare gli spigoli delle consonanti. Ma quando li urto, trafiggono. Puntano il dito contro le mie fragilità, le mancanze, gli errori, i difetti che per quanto io cerchi di alterare sono sempre sotto la superficie, e loro lo sanno. Ridono le consonanti. Accusano. Insultano. Insinuano il dubbio. Il maledetto dubbio che io non stia facendo abbastanza e mai riuscirò. Il dubbio dannato che io faccia male a fidarmi, che lo sai Serena come va a finire.
Vocali e consonanti si intrecciano. Formano alleanze strane. Scendono a incomprensibili patti e combinazioni pur di farmi capire qualcosa. Si lasciano modellare, si lasciano guardare, misurare, pesare, valutare. Lasciano che io provi a metterle in fila. Altre volte no. Oppongono resistenza, non vogliono essere affiancate le une alle altre. Non vogliono essere scoperte, forse sanno che non sono pronta per vedere certe parole lì, nero su bianco. Mi vogliono proteggere. Oppure, vogliono vedermi soffrire ancora un po’.
Le parole sono strane. Mi prendono in braccio quando sono debole oppure mi fanno lo sgambetto quando cammino. Sono segnetti. Significano tutto. E non vogliono dire niente. Significano quello che tu vuoi.
Io voglio che siano vere. Che rappresentino la verità nuda e cruda. E le voglio tirare fuori. Le voglio estrarre. Le voglio della forma e della tonalità di grigio che voglio io. E le voglio leggere. Non ho paura. Per ricordarmi chi sono.
Anche se fanno male, perchè le mie parole sono come tante puntine da disegno sparse sul pavimento. E io sono perennemente scalza.

Come quando t'ho sposato.

">

Parte questa canzone e torno all’Inverno scorso. Pioveva spesso. Io mi facevo il nido qui nel mio seminterrato. Avevo bandito la luce elettrica e la sera erano consentite solo candele. Giorno e notte si fondevano in un unica macchia chiaroscura. Il frigorifero conteneva sempre meno cibo ma sempre più condimenti, birra, latte e Kinder Pinguì.
Nell’aria si respirava sempre incenso, libri erano impilati da tutte le parti come pezzi sconnessi del puzzle che ero io, e le tazze e i piatti a fiori e a pois anni “50 della nostra casetta felice non andavano d’accordo con il mio guardaroba che tornava ad essere completamente nero come una volta.
I capelli erano Rosso Tiziano, sempre più lunghi, sempre più lisci, il peso calava, ma non me ne fregava niente.
Tu non c’eri più. Ma io non piangevo più per te. Il gioco era finito. Avevamo smesso di raccontarci bugie e provare testardamente ad andare avanti solo perchè era la cosa “giusta” da fare. Giusta per chi poi, non l’ho ancora capito a distanza di tempo. Certo non per lei. Certo non per me. E nemmeno per te.

Sento questa canzone e penso che un giorno ho pensato che io sarei rimasta per sempre sola. Come quando un giorno seduta in giardino a 19 anni ho pensato che il libro che tenevo in mano un giorno l’avrebbe tenuto in mano mia figlia. Sento questa canzone e penso che un giorno ho pensato che una persona abbastanza interessante, stimolante e sincera non può esistere. E se c’è. non sarà certo per me.

Sento questa canzone e penso che un giorno ho pensato che io non mi merito di essere amata così completamente ed esclusivamente. Che una vita con me deve essere tediosa e arida. Perchè così troppo spesso mi sono sentita. O così, troppo, troppo spesso, tu mi hai fatto sentire.

E io non so più esattamente dov’è la linea tra quel che è vero e quel che tu mi hai convinto fosse vero. L’hai spostata avanti e indietro talmente tante volte che non lo sai nemmeno tu. Mi hai fatto impazzire. Prima d’amore, poi di disperazione.
Ami tanto, odi tanto. Ce lo eravamo sempre detto. E sai cosa? Su quello, avevi ragione.

26.2.12

Volevi solo non-essere.

E poi sì. E dentro quel “poi” ci stanno malattia, disperazione, soste sulla tavoletta del water di primo mattino, chissà poi perchè alla stessa ora, con la lametta in mano a seguire i rami di quel salice piangente di vene blu lungo il polso sinistro.

Poi decidi che no, ci sono un paio di cose che vorresti provare a fare, a sbagliare, a mancare. Un paio di persone che vorresti provare ad amare, o infastidire, o infettare, o distrarre.

Così resti. E ti ripeti che ne hai ogni diritto. Che quel corpo ha diritto di occupare spazio. Anzi, quello spazio è mio. Mio. Ho un nome. Con questo corpo ho creato. Questo corpo martoriato, cicatrizzato, deformato, mutato, germogliato, maturato, fecondato, appassito e poi gettato nell’aia a bruciare con le altre erbacce, invece, ha diritto di rimanere. C’è ancora qualcosa da dare. Forse.

Ma come si tira fuori? Per chi lo tiri fuori? Perchè lo tiri fuori? E anche se avessi una mezza idea, tanto il cuore batte secondo la sua canzone che la mente stravolta e disorientata non riesce mai a captare al momento giusto. Una danza goffa.

Una danza d’amore, di odio, di sopportazione, di incomprensione, di gioia, di disperazione, di ribellione, di solitudine. Perchè mente e cuore non sono poi così distanti, eppure così inavvicinabili. Non si sfiorano. Mai.

E quando vorresti poter sfiorare “qualcunocosa” e non lo fai, le braccia, le mani fanno male, diventano pesanti come quando si blocca la circolazione. Senti il peso del midollo spugnoso all’interno delle ossa, senti il peso dei tessuti connettivi molli come il budino, senti il peso dei nervi tesi come cavi dell’alta tensione, senti il peso dei vasi sanguigni fatti di creta con tutto quel fuoco vivo che scorre al loro interno, senti il peso della pelle, corteccia di seta.
E pesa tutto. Sai ormai che quel tocco sprigionerà quell’alito di vita che ti ricorderà chi sei e perchè ci sei, e perchè devi restare.
Forse.
Eppoi ora sai davvero cosa significhi amare, sentire, vivere e poi vedersi sparire tutto così.
Così.

24.2.12

Quando ero libera.
Saltavo in macchina, accendevo la radio, chiudevo lo sportello, inserivo quella chiave che si incastrava così armonicamente, e la giravo con quella piccola rotazione del polso che innescava l’inizio della mia liberazione.
Lasciavo che i chilometri scivolassero via, uno dopo l’altro. I numeri che rollavano nel contachilometri come piccoli segnetti cuneiformi. Mi scagliavo verso “versovunque”.
Dirsi che tra tre canzoni giri e magari torni sulla strada di casa, e poi dirsi, no ancora fino alla fine dell’album. E magari il prossimo ancora.
Fluiscono liquidi e lisci i chilometri. Lascio una scia di errori, rimproveri, frustrazioni, insoddisfazioni, rabbia, impotenza e noia dietro di me come fanno gli aerei nel cielo.
Mi dirigo verso il mio prossimo “ovunque”, e non mi interessa arrivarci, l’importante è stato partire.
E girare la macchina. E girati le spalle, girarvi le spalle, girarmi le spalle.

E andare via. Versovunque, nel mio cielo d’asfalto. Le righe bianche, i miei gabbiani silenziosi.

23.2.12

7 del mattino. Seduta qui col caffè in mano.
Sento il tocco benevolo della ceramica calda. Il profumo di caffè mi riporta dolcemente alla vita come lo sguardo premuroso di mio nonno, i cui occhi erano bruni e vivi come la terra che coltivava.
Un raggio di sole attraversa la persiana bianca come le nuvole. Attraversa il vetro della nostra palla di vetro. E arriva a sfiorarmi il viso. Solo un poco sulla guancia sinistra. Così dondolo la testa, inclino il collo a cercare di strofinarmi in quel lembo rincuorante di luce.

Come se mi strusciassi su di te.

22.2.12

Qualcosa a volte semplicemente si spezza. Non vuoi, ma è un dato di fatto. Eppure le regole le avevi lette prima di iniziare a giocare. Certe cose bisogna ignorarle. Se non le vedi, è un po’ come se non ci fossero.

L’hai fatto per tanto tempo. Certo che ti ricordi come fare, per quanto tu ti atteggi a fare quella schietta e coraggiosa abbastanza da chiamare tutto col proprio nome. Eppure non funziona così, e tu lo sai. Com’è la storia? Puoi decidere di chiamare una Rosa, “Margherita”, solo per farla sembrare più innocua. Ma sai che non è così. Consonanti e vocali, suoni e accenti non lisciano le spine sullo stelo. Quelle ti pungono lo stesso. Anzi. Ci conficchi la carne viva ancora di più perchè ti colgono alla sprovvista. Tu che ti eri illusa non ci fossero solo perchè gli avevi dato un nome diverso, solo perchè avevi deciso di non volere vederle. L’illusione.

Guarda il mondo intorno a te. Chiama le cose col loro nome.

Guardale in tutta la loro altezza, larghezza, profondità, ampiezza, lunghezza.

Guardale in faccia. E non ti spaventare.

Solo così vedrai quelle Rose così incantevoli. Quelle corolle. Ogni petalo una storia e un’avventura, un vento e un sussulto, una perdita e un'onda, una corsa e un riposo, una pulsazione e un silenzio, un graffio e una lezione, un distacco e un'abbraccio, una bruciatura e una cura, un’incastro e un’addio.

21.2.12

”…ragazzo mio, ovunque tu sia,

lavora per il bene della tua anima,

che tutta l’argilla in te…

possa cedere al fuoco che è in te,

fino a che il fuoco non sia altro che luce…”

- Edgar Lee Masters



20.2.12

Essere così dannatamente barricati emotivamente. Fortemente trincerati. Cuore ingabbiato sotto costole di ferro e argilla.
Poi, quando alla fine inizi ad aprire uno spiraglio, finisce che un attimo dopo ti spalanchi. Divarichi quelle ossa e non sai calibrare l'energia, ne spezzi qualcuna, ma poco importa, finalmente i muscoli possono contrarsi liberamente. Sentono. Respirano. Vibrano.

E poi ci si tocca davvero.

A volte sono carezze, a volte sono morsi.

Basta.

Ho finito.

Questa è stata l’ultima volta.

La prima in 12 giorni. 288 ore. 17,280 minuti.

Questa è stata l’ultima volta.

Ho finito.

Basta.


19.2.12

E poi ci fu: "Il Devasto - Parte III"
Risate, birra, abbracci. Sguardi che durano giusto un secondo di troppo.
Voler riempirti gli occhi di ciò che per un po' non vedrai, riempirti le orecchie di ciò che per un po' non sentirai.
Arrivederci. Tornate presto, ma state tanto.





17.2.12

E poi ci fu "Il Devasto - Parte II"
Quanta birra è scorsa quella sera. E Limoncino.
E quante risate, come sempre.
E' già passata una settimana.
E metà della gente a quel tavolo è partita per seguire il proprio sogno.
Più o meno, chi in un modo chi in nell'altro.














16.2.12

Fluttuare in quel non-spazio tra i gabbiani.
Non esiste nulla di definito lassù, gioia e tristezza si fondono, noia e stimoli si sciolgono l’uno dentro l’altro, solitudine e claustrofobia vivono l’una dentro l’altra come in una matrioska.
E poi ci sono io che cerco di capire come dovrei stare. Precisamente qual è il mio pezzetto di cielo? C’è?
L’unica cosa che so è che quando ti sento ridere, il cuore si ferma all’improvviso per poi ricominciare a battere mille battiti al minuto.

Muoio e rinasco.

E il resto poi andrà a posto. Ne sono sicura.


14.2.12

E poi ci fu "Il Devasto-Parte I"
Quella sera tra Cuba pestati, birra, vino rosso, System of a Down e "Alla scoperta di Nemo" mi sono addormentata contenta.
In più ero con alcune delle persone che più adoro al mondo.
Gran bel Sabato sera.

E poi ci siamo risvegliati col mare davanti...











Lezioni di abbracci, sorrisi e discorsi a colazione.







11.2.12

Il finestrino acquario fluttua, i chilometri scorrono sotto la pancia, la musica mi avvolge e la mente corre in unica direzione.

Quella poco pratica, quella sconveniente, quella poco saggia, quella dannatamente attraente e meravigliosamente elettrizzante: quella, sì proprio quella.

4.2.12

E quando guardi la lavatrice, e pensi che quel cestello in movimento si sta sicuramente divertendo più di te.

Ho aperto la finestra e una folata di vento gelido ha ricoperto il mio letto di foglie secche.

Mi ha fatto sorridere perchè stamattina mi sento proprio così, sensazioni, desideri, pensieri aleggiano dentro di me, fluttuano, salgono leggeri e liberi per precipitare giù dopo poco, pesanti come palle di ferro ma delicati come foglie secche.
Che belle le foglie secche, così perfette nella loro rugosità, così sottili, così discrete.
E quando vengono schiacciate, fanno un suono delizioso. E poi sono polvere. Così. In un attimo.
Perchè non ci vuole molto a distruggermi. E penso che però l’hai fatto così bene.
E penso che la mia polvere verrà assorbita da terreno fertile e qualcosa di nuovo, di più bello, di più forte, di più prezioso crescerà.

Un giorno.

2.2.12

La mia Miranda ha scritto i suoi desideri nel mio diario.






O, wonder!
How many goodly creatures are there here!
How beauteous mankind is! O brave new world,
That has such people in't!

Miranda, 5.1