IO ALLA FINE NON SO COSA SIA UNA BELLA FOTO.SO SOLO CHE VEDO COSE E LE DEVO FERMARE.E CHE A VOLTE HO QUALCOSA DA DIRE.ALTRE VOLTE, NO.


28.4.12

A volte è meglio non porsi la domanda.
Perchè poi l’errore è sempre il medesimo, chiedersi: “come stai Sere?”.
Sembra niente. Eppure è in quel preciso istante che mi incammino nel campo minato della mia mente, e peggio, del mio cuore. L’istante in cui mi srotolo come un gomitolo di lana e basta, non trovi più nè capo nè coda. Come quando non lasci il pezzetto di scotch rigirato su sè stesso e non trovi più l’inizio, finisce che scorri l’unghia in tondo tremila volte.
Inizia il faticoso processo di risposta. Mi pongo domande. Ci penso. Fisso una piastrella del pavimento e credo di aver trovato una risposta. Per due secondi credo che mi soddisfi o al contrario, sembra che mi gratti dentro in cerca della “verità” sottostante.
E poi no, ansimando mi dico che non solo non ho la risposta giusta, ma mi sono posta la domanda sbagliata. E fremo. Le ginocchia fremono. Mi devo spostare, devo camminare, faccio le scale, lavo l’unica tazza di caffè nel catino di plastica rosa nel lavandino. Perchè quel catino l’ha comprato la vecchia me, quella che si prendeva in giro e girava la testa di là. Troppo spesso.
E poi ci sono mattine come questa. In cui mi rimprovero e mi vieto di farmi domande. Nessuna. Nemmeno una. Non ti chiedere niente. Il vulcano dorme stamattina Serena, non andare a urlarci dentro sperando che l’eco crei qualche riverbero. Lascia stare. Lascia perdere.
Fatti il caffè. Chiudi gli occhi. Scaldati con il suo aroma.
Apri gli occhi, assorbi quel raggio di Sole sulla coperta di tuo zio, quella che ti ricorda della tua nonna/mamma quando ancora si ricordava di noi, di lei.
La bimba canta fuori. Lasciati avvolgere e condurre dalla sua voce pura. E vera. 

E poi hai un po’ di batteria. Hai avuto una manciata di minuti tutta per te. Tutta per voi. Più o meno. E si è infilata tra i polmoni, si è accocolata lì sotto al cuore.
Ora puoi andare avanti qualche giorno senza domande.

Senza troppe domande.
Forse.

E quindi?

22.4.12

E certe parole non sono solo parole quando le senti. Pesano.
 Non sono solo parole. Sono palle di cannone. Quando le senti, le guardi al rallentatore mentre ti trapassano le budella e gocce di sangue come tante perline rosse si sparpagliano sul pavimento e ballano la tarantella. E la palla di cannone esce dalla schiena, dietro, e brucia, fiamma viva si attorciglia intorno ai reni rapida e vorace. 
Non sono solo parole. Sono come quegli scogli sott’acqua. Quelli affilati come lame di coltello. E ti tagli mentre nuoti e ridi coi tuoi amici di fianco e hai il fiatone e i capelli si appiccicano intorno al viso e respiri così forte che hai la pancia tutta in dentro e i seni cercano di salire su. 
Non sono solo parole. Sono insegne al neon fatte a forma del tuo nome. Con una bella “S” pure. Tipo quella della Sambuca Molinari. La freccia punta te. E il neon sfolgora. E ti acceca. Quelle parole ti accecano per un secondo. 
Guardi nel vuoto. Ti senti nuda davanti a quella luce, davanti a quella lama, davanti a tutta quell’artiglieria. 
 Eppure chi le pronuncia non vuole farti del male. 
Ma le parole sono vive. Sono piccoli parassiti che ti cercano, ti trovano, vengono a te. 
Non ti girare, non serve. 
Ti troveranno sempre. E tu guarderai nel vuoto. E vorrai rivomitarle indietro. E gli occhi bruciano. E la gola fa male. Ma male davvero stavolta. Ed è stato come ingoiare veleno per topi stavolta. Ed è come avere un mozzicone di sigaretta incastrato in gola stavolta. 

 “Hai la voce bassa Serena, un colpo d’aria anche tu tesoro.” 
 “…sì… sarà un colpo d’aria…” 

Bugiarda. 


19.4.12

Su quanti scivoli si può sgusciar via in un giorno solo? 
 Quando ero piccola gli scivoli erano di metallo, con quelle scalette ripidissime e la ringhiera di ferro per tenersi era sempre mezza arrugginita con la vernice blu o rossa che si staccava. La tenevo fortissimo quella ringhiera. Piantavo i piedi su ogni scalino così forte che l’intero scivolo rimbombava. 
E poi finalmente ero su. Mi sedevo. E prima di cedere alle insistenze del bambino dietro di me che spingeva per avere il suo turno, io mi sedevo. Mi sedevo e guardavo giù. Mi guardavo intorno. Mi godevo quell’istante in cui io ero sopra a tutti e tutto. In quell’istante, lì sopra c’ero solo io. E le margherite lì in basso sembravano come il luccichio delle onde del mare d’Estate. E le maestre in fondo al cortile erano piccole come le cimici. E i bimbi, incluso quello dispettoso, erano piccini come i grilletti verdi. E le persone che mi facevano paura, viste da lassù sembravano come quei ragnetti piccoli rossi che potevi schiacciare con un polpastrello senza neanche spingere troppo. 
 E poi mi davo la spinta per scivolare giù. E la sentivo nella pancia. E trattenevo il respiro. E mi lasciavo andare. E non avevo peso. E niente e nessuno avevano più peso. Tutto grazie a quei pochi scalini di metallo. 
E poi arrivavo coi piedi per terra. E tutto tornava come prima. 
Ma se mi annusavo le dita, lo sentivo quell’odore di metallo, di ruggine. L’odore che mi insegnava che un modo per non avere paura ed essere libera c’era già.

17.4.12

Preferisco stare qui. In macchina. In questo parallelepipedo di metallo verde capace di portarmi versovunque. 
Preferisco stare qui in queste ore di silenzio. Penso e ripenso. Mi assopisco. Mi sveglio. Controllo. Sospiro. Piango. Sorrido. Leggo. Pianifico. Giustifico. Mi accuso. Mi faccio promesse. Mi spavento. Mi tranquillizzo. Mi irrobustisco. Mi sgretolo. Mi metto l’armatura e me la levo. Affilo la lama e ogni tanto finisco per tagliarmi da sola. 
Sto qui seduta e penso che il Cielo sopra le nostre teste è lo stesso. Che le stesse nuvole ci viaggiano sulle teste come tanti galeoni. Che lo stesso Sole ci scalda. Che la stessa Luna ci spia. Che il ring sul quale lottiamo è, alla fine, il medesimo. 
 Quaggiù. 
Qui dentro. 
E penso che il cuore nel mio petto è come un’ape impazzita che sbatte contro il vetro del finestrino mentre cerca caparbiamente, sistematicamente, pazzamente di uscire, di trovare lo spiraglio verso lo spazio aperto, là fuori dove potrà respirare e spiegare le proprie ali come può fare, come deve fare. 
Che stia fermo questo cuore. 
Che taccia mentre cerco di respirare e riposare. 
Qui nella mia Panda. 
Quella che mi ha portato da te. 


15.4.12

Dovrei essere contenta. O per lo meno, qualcosa di molto simile. Alcuni pezzettini del mio puzzle sono andati a posto. Altri non ancora ma ho già visto con gli occhi dove andranno a finire presto. Lottando, ma ci andranno. C’è chi mi sta facendo capire che le mie foto non sono inutili e qualcuno le guarda anche. Dal di fuori, sto bene. Me lo dicono tutti, vorrà pur dire qualcosa.
Eppure.
Eppure, perchè ho questo piccolo parassita che mi mangia un pezzetto di cuore lì in basso a sinistra? Perchè quando nessuno mi guarda mi faccio robe spiacevoli e inutili? Perchè non riesco proprio a crederci quando mi viene fatto un complimento o un presunto tale? Perchè certe distrazioni non funzionano più di tanto? Perchè non riesco nemmeno a desiderare di spiegarmi? Perchè ho sempre questo fossato intorno? E perchè desidero abbassare il ponte levatoio per far entrare qualcuno solo così estremamente rarissimamente? Tipo una volta ogni lustro? Però che bello quando succede… Vorrei farlo e rifarlo e ancora e ancora senza mai fermarmi, per non farlo mai diventare un ricordo ma una realtà meravigliosamente struggente e stremante.
Eppure vorrei tanto credere, ammettere, connettere, accettare, fare pace. Lo vorrei tanto.
Magari.
Magari poi.
Magari presto.

9.4.12

“Permesso? Sto morendo! Ti prego fammi usare il tuo bagno!”
Getto la borsa sul letto che intravedo nella penombra. Si muove qualcosa sotto le coperte. E’ Lei. “Lei”. “Perdonami… non sapevo fossi qui. “
“Ma figurati. Fai pure.”
Ok. Faccio. Seduta sul wc vedo le tue infradito. Quelle di gomma verde militare che ti ho comprato io. Ma pensa tu. Il suo fiocco nero appeso alla doccia. Il sacchetto di Boots con gli assorbenti dentro vicino al water.

E ho lottato di nuovo con te. Per lei. Per me.
Ci ho provato, con tutta con me stessa. Anzi no. A tratti mi sembrava di cedere. Mi sembrava di sentire le piante dei piedi sprofondare nel fango. Per un secondo mi lasciavo cullare in quel semi-abbraccio mortale, contenta di lasciare che il fango mi sostenesse. Mi lasciavo prendere in giro da quel falso senso di sicurezza. Ma un secondo dopo l’intorpidimento si diradava. No. Io punto i piedi. No. Io mi tiro su. No. Io alzo la voce.
Ho lottato. Ti ho guardato dritto negli occhi e ho sparato. Ancora e ancora. Finivano le munizioni. Ricaricavo. Mi coglievi dall’angolo peggiore per me. Prendevi la mira con quegli occhi blu, così freddi eppure così caotici, babelici, malati. Ti ricacciavo indietro dove potevo contrattaccarti meglio.

Nonostante il mare che cantava alla nostra destra. Nonostante la brezza marina ci accarezzasse le guance e scendesse giù a solleticarci il collo. Nonostante l’odore di salsedine cercasse invano di distrarci e prevalere sui nostri odori da animali selvatici in piena lotta. Nonostante il Sole ci facesse socchiudere gli occhi, rendendo le nostre visioni più offuscate. Nonostante il meraviglioso fragore delle onde contro gli scogli laggiù in basso cercasse di coprire il rullio del cuore che ci sbatteva in pieno petto.

Mi hai datto uno schiaffo in pieno volto. Ti ho dato una testata.
Mi hai dato un pugno nello stomaco. Te ne ho dato uno nei reni.
Mi hai fatto sputare sangue. Ti ho rotto il naso. Il solito rivolo giù per le tue labbra.
Quello per il quale ti davo sempre un fazzoletto. Così premurosamente. Ora ti guardo. Mi giro dall’altra parte. E spero ti dissangui lentamente in una pozza di gelatina di porpora lì per terra. Lì. Sull’asfalto. Lì sotto al Sole.

Mentre ti sbircio dallo specchietto retrovisore. Curiosa. Vittoriosa.

7.4.12

Io a ‘sta cosa della solitudine mi devo ancora abituare per bene.
Lei non c’è.
Nessun’altro c’è.
Ci sono solo io. Qui. Ora. Solo io.
Non ho ancora imparato a starci bene. Ancora.

Devo proprio abituarmi?

6.4.12



“Era bello vedere che il verde ritorna e che si svegliano i ghiri
era bello sapere che dopo l’inverno la voglia ritorna anche a te”

-Tre Allegri Ragazzi Morti
Hai trovato questo bottone. Un bottone serve sempre. Anche se non hai mai imparato a cucire. Tienilo, ti dici. Mettilo in quella scatola di latta rossa. Non si sa mai.
Non sai mai quando lo userai. Ci sono bottoni lì dentro che hai raccolto una dozzina d’anni fa ma non hai mai usato. Sono lì. Addormentati. Pronti a tirarsi su al momento del bisogno. Solo che questo momento del bisogno non è ancora mai arrivato.
Aspetta. Alcuni in qualche rara occasione hai anche provato a usarli. Ma non riuscivi mai a stringere i fili abbastanza. Scivolavano via dopo un po’. Li perdevi. E diventavano il piccolo tesoro di chi li raccoglieva dopo di te.
E poi trovi questo. E’ bello. Semplice. Tutto nero. Liscio. Lucido. Solido. Sembra quasi un amuleto. Questo lo raccolgo, sì. Ma non lo metto nella scatola di latta rossa. Questo me lo tengo qui. Qui vicino a me. E sembra avere uno strano potere: ti tiene compatta. Ti allaccia. Ti allaccia a dove sei. Ti allaccia a chi sei. Ti allaccia a chi vuoi. Ti allaccia al sorriso che avevi perso. Il bottone ti ricorda che nel ventre hai fuoco e nel cuore, piume.

Attenta. Il bottone è piccolo. Potrebbe rotolare via.

Correrò il rischio.